Domenica 9 Ottobre 2016, 20:31
La guerra dei cafoni: dal libro al film
di Giorgia SALICANDRO
Aria guardinga di chi ha messo un piede in terra straniera, aria trionfale di chi ha strappato alla strategia o al caso una nuova postazione in un gioco di guerra, ventiquattro ne conta il piccolo “esercito” regolare, qualche altra decina i coetanei alleati. Banditi gli adulti, come banditi sono nel film. Il gioco è tutto per loro: “cafoni” e “signori”, imberbi colonnelli di una guerra che si muove esplorandosi, tracciando improbabili territori d’identità, tentando battaglie come fossero inviti a presentarsi. Questa sera, alla Casa del cinema di Roma, saranno loro i soli ammessi alla prima proiezione de “La guerra dei cafoni”, il film di Davide Barletti e Lorenzo Conte prodotto da Minimum Fax Media con Rai Cinema, Amedeo Pagani (“La Luna”) e con il contributo della Direzione generale cinema e di Apulia Film Commission, una delle quattro pre-anteprime della Festa del cinema di Roma.
Attendiamo il grande approdo insieme a Davide Barletti e a Carlo D’Amicis, l’autore del romanzo da cui è tratto il film, che con i due registi firma anche la sceneggiatura. Nel salottino di Ubu libri, nel quartiere Testaccio - sede operativa del montatore Jacopo Quadri - l’atmosfera sosta a metà tra la distensione dopo un’impresa compiuta e la fibrillazione un po’ emozionata del secondo capitolo. Sì, perché – ci tengono a dirlo entrambi – tra la pagina scritta e l’immagine che vedrà proiettata, questa sera, la tribù dei ragazzi partiti dalla Puglia, c’è di mezzo qualcosa in più dello scarto consueto tra il romanzo e la sua trasposizione cinematografica. Un “laboratorio” vero e proprio, che è nato sul set e continua a compiersi oggi con l’inedita iniziativa di un viaggio speciale riservato ai giovanissimi protagonisti.
«La produzione ha fatto una scelta coraggiosa – spiega Barletti – costruire un vero laboratorio di formazione, “LaB.EL”, realizzato da Aforisma in collaborazione con Improvvisart e Terre del Fuoco e sostenuto dalla Fondazione con il Sud. I ragazzi sono stati a stretto contatto per due mesi senza la presenza dei genitori, un’esperienza totalizzante arricchita dai corsi di preparazione che hanno fatto conoscere loro i mestieri del cinema».
La storia de “La guerra dei cafoni” è quella dell'eterna contesa tra due bande rivali, i “signori”, figli dell’alta borghesia, e i “cafoni”, discendenti del proletariato contadino e operaio, che di estate in estate si rinnova a Torrematta, imprecisato lembo della costa pugliese, quasi un territorio archetipico in cui va in scena il gioco mobile dell’umanità. Esemplari pure i personaggi, con soprannomi di battaglia al posto dei nomi: Marinho, il capo dei signori (interpretato dal barese Pasquale Patruno), Scaleno, numero uno dei cafoni (Donato Paterno), Lucaviale (Kevin Magrì), Tonino lo storduto (Piero Dioniso), Mela (interpretata da Letizia Pia Cartolaro, di Lequile) la “cafona” che confonderà il capobanda avversario, Cuggino (Angelo Pignatelli), venuto in soccorso dei cafoni dalla città, la «figura terza che sporca la guerra, la piccola borghesia in cui si mescolano le classi sociali, aprendo alla nuova epoca preconizzata da Pasolini». Archetipi del genere hanno bisogno di un “teatro” adeguato, non “contaminato” da pale eoliche, ma neppure da cineprese e campagne pubblicitarie. Lo hanno trovato, i registi, nelle riserve naturali delle Cesine e di Torre Guaceto, e nelle alture tra Santa Cesarea Terme e Porto Badisco.
Nel film, tre storie diverse. La parabola della crescita, del tempo radicale, intenso, feroce, anche, dell'adolescenza. La “Storia” senza tempo, di un umano in conflitto perenne, raccontata nel prologo visionario in cui compare, per pochi minuti, Claudio Santamaria, una sorta di “fondazione” simbolica delle divisioni, recitata addirittura in greco bizantino, per rimarcare l'alterità con la storia seguente. C’è la Storia degli anni Settanta, età di fedi radicali, scontri senza sconti, idealità di cui il terrorismo è una delle declinazioni. Ma, anche, l’età della “perdita dell’innocenza”, della televisione, dei nuovi costumi, delle spinte all’omologazione.
C’è poi una quarta storia. Se è vero, come suggerisce la recente “Storia d'Italia in quindici film” di Alberto Crespi, che Sandokan può spiegare il ’68, allora anche i ragazzini del film di Berletti e Conte ci dicono qualcosa sull'oggi, sulle diatribe a colpi di hashtag e di post su Facebook, sugli slogan pubblicitari che sembrano divenuti la cifra del linguaggio quotidiano. Una nuova epoca di “signori e cafoni”.
«Del resto, l’antagonismo è il motore di ogni storia – commenta Carlo D’Amicis – è un tema che attraversa epoche e società diverse, per questo il nostro film parla di qualcosa che è insieme attuale e senza tempo».
La lunga militanza, da registi, nel mondo underground dell’hip pop, delle case occupate e delle bande giovanili romane, costituisce il background essenziale di Barletti e Conte, da cui i due hanno pescato a piene mani per ritrovare suggestioni da prestare al film.
«Un certo peso, però, lo ha avuto il fatto che sia io che Lorenzo siamo padri, e per forza di cose ci interessa confrontarci con ciò che i ragazzini hanno in testa», spiega Barletti. Ed eccoci al film. Un’opera collettiva a cui si è prestato anche l’autore del romanzo, partecipando in prima persona alla “manipolazione” necessaria alla sceneggiatura.
«Nessuna difficoltà – commenta D’Amicis - è stato come lavorare su una materia viva, un modo per far vivere i personaggi al di là della pagina scritta. E ancora diverso è veder recitare gli attori, che danno loro caratteristiche ulteriori tanto rispetto al libro che alla sceneggiatura. In questo senso, partecipare al film è stata un’opportunità anche per me». Una materia viva che continua a muoversi, oggi, nel lungo viaggio Lecce-Roma della giovane “tribù” del film.
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